Ciao, mi chiamo Davide, ho 26
anni, e passo le domeniche mattina a prendermi mazzate da gente che ha il
doppio della mia età e che corre al doppio della mia velocità. Questo è il mio
post d’esordio su #PodistiAnonimi.
Vivicittà 2013 equivale a: dai,
facciamola, che a fine gara andiamo a scassarci un kebab da Horas. E quindi pronti-via, c’è
tanta gente, ma non è certo la Stratorino, tantissime persone ma non troppe.
Dodici chilometri nel centro del capoluogo piemontese, posti che sono abituato
a vedere indossando i panni dello studente universitario, o, dopo le dieci di
sera, dello studente universitario che esce a sbronzarsi (ma sappiate che bere, al podista, fa male). Dicevo: pronti-via e dopo duecento metri passiamo dietro
alla sede di Torino Esposizioni, che fino all’anno scorso lì dentro ci seguivo
il corso di Lingua Inglese; una discesa che ti fa andare come una scheggia
sfiorando i tre e trenta al chilometro (io concluderò la gara con un misero
quattro e quarantacinque di media che spero di migliorare il prima possibile,
iniziare ad allenarmi seriamente non mi farebbe male ora che ci penso). Cerco
di recuperare il tempo che perderò più in là, perché ad ogni discesa, a quanto
pare, corrisponde una salita. E dopo trecento metri infatti è già lì, ma è
tranquilla: curva a gomito a sinistra, siamo nel cuore del Parco del Valentino,
alberi, famiglie che passeggiano, e davanti a me un chilometro di salita non ripida
ma costante che mi porta dritto dritto in riva al Po. Da lì è un attimo entrare
nel centro cittadino fino in Piazza Vittorio, la piazza più grande d’Europa – dicono-
, e guarda, lì c’è la Rhumeria Rumba Mamà, quanti rhum al caramello in quel
posto. Due chilometri e oltrepasso il fiume, hanno riservato una corsia a noi
podisti ma io preferisco il marciapiede, le gambe le sento normali e qui pare
che sia tutta in piano per un bel pezzo, anche se controvento. Passo davanti al
negozio di snowboard più cool di Torino, curva sulla destra e ci dirigiamo di
nuovo verso il Parco dal quale siamo partiti; Marco e Davide li ho persi dopo
un centinaio di metri, Mauri anche stavolta dopo il secondo chilometro, Mino è
reperibile quindi niente podismo per lui quest'oggi, e Carmelo è da qualche parte più
indietro che corre senza pettorale, non è iscritto e la prende come un
allenamento in compagnia.
Quattro chilometri all'arrivo: mi
avevano detto "il percorso non è quello dell’anno scorso, sono stati
eliminati un sacco di sali-scendi". Sì. Come no. Entrando al Vale (i gggiovani
torinesi, il parco, lo chiamano così) c’è una stradina che è adorabile se
percorsa in discesa con un longboard. Ma in salita è SCOMODA. Curva a sinistra:
ancora alberi, famigliole, rettilineo e poi una discesa ripida che va davvero
troppo giù, e ho paura, perché prima o poi dovremo risalire. Lungofiume: la
gente ci fa le foto, i bambini ci guardano stupiti e le mamme dicono “guarda
che corrono! Uuuuhhh ma quanti sono!”. Siamo al decimo chilometro e sono
passati quarantasette minuti, davanti a me c’è tanta gente stanca e una
strettoia che sale, sale, sale. La imbocchiamo e i polpacci fanno male, curva
cieca a destra, mi dico “dai che adesso vado tranquillo”, e invece la salita
continua. Vedo un tunnel, dentro a quel tunnel ci dobbiamo passare e mi dico “dai
che poi, dopo quel tunnel, ci sono ancora poche centinaia di metri e sono
arrivato”. Non è vero, all’uscita del tunnel vedo la discesa di inizio gara,
quella in cui si sfioravano i tre e trenta al chilometro, la devo fare nel
senso contrario. Vengo affiancato da Carmelo che mi dice “dai Davide, dai”, io
lo guardo e gli dico “sto per Morire, adesso muoio, guarda, muoio lì”, e indico
un punto a caso dell’asfalto davanti a me. Vedo il traguardo, mi dico “beh,
dai, sono arrivato”. Faccio uno scatto e mi rendo conto che non è poi così
vicino, per allungare il percorso hanno messo transenne qua e là, ma comunque è
lì, davanti a me, ormai sono arrivato davvero, questo è quel momento in cui te
ne freghi di come stai e inizi a correre più veloce che puoi per guadagnare
qualche secondo prima di collassare stramazzato a terra sotto gli occhi altrui.
Passo sotto il traguardo, questo enorme arco gonfiabile di colore giallo, sto
per schiacciare stop sul cronometro e piegarmi sulle ginocchia quando un tizio
con la ricetrasmittente mi fa gesto di proseguire e ci grida che quello è solo
l’arco che segnalava la partenza, l’arrivo è nel cortile della facoltà di
architettura, quel castello poco più in là, a circa duecento metri. Momento momento momento momento. Scherzi?
Mi prendi in giro? Ho passato gli ultimi duecento metri a sperare che quelli fossero
gli ultimi duecento metri, e ora mi dici che ne devo fare altri duecento? Occhei,
adesso li faccio ma poi muoio.
Li faccio, chiudo in 56’27”, poi bevo succo di
mela come se non ci fosse un domani, mangio fette biscottate e marmellata, e mi
cambio nello spogliatoio messo a disposizione dall’organizzazione (leggi anche: una panchina a caso a pochi metri dall’arrivo). Direi che ci siamo, andiamo a mangiarci ‘sto Kebab, o no?