Un giorno ho letto da qualche parte, non ricordo se su una rivista di settore o su una biografia, la considerazione di uno specialista nostrano della disciplina. Vincitore, tra le tante, di una Maratona olimpica. Un amatore che si rispetti, diceva, percorre i 42.195 metri della Maratona in 3 ore e mezza. Erano i primi tempi della corsa e non potevo che pensare che la Maratona fosse il punto più alto della parabola che il podista che ancora non ero potesse raggiungere. Un vero e proprio punto d’arrivo. Mi piaceva l’idea di essere considerato un amatore rispettabile e, cosciente che alla mia età e con mezzi fisici non di prim’ordine non potevo ambire all’eccellenza, ho deciso che quello poteva essere il mio obiettivo. La rispettabilità. Mi fa sorridere, ora, mentre scrivo questo post, il pensiero di quanto io mi stia affannando alla ricerca della rispettabilità. Come a dire che se la mia carente autostima talvolta non mi fa sentire adeguato, in questo, nella corsa, dove il risultato (dovrebbe) dipende(re) solo da me, con la corsa io posso in qualche modo dar sollievo ai miei malesseri esistenziali. Certo, non del tutto redimermi, ma togliermi di dosso un po' di merda sì, dai. A ogni modo, nel tempo, frequentando l’ambiente e podisti di ben altro (alto) livello, ho capito che si può essere un amatore più che rispettabile anche senza averne corso nemmeno una, di Maratona, e, nonostante risultati gratificanti su diverse distanze, nonostante questo, non sono mai riuscito a togliermi di testa quella frase, che risuona sempre accompagnata dai numeri dei miei tre precedenti insuccessi. Poi, negli ultimi tempi, giusto per complicare ulteriormente le cose, ho deciso che la felicità passa per Boston (per correre a Boston la più antica Maratona al mondo, è necessario avere un tempo di accredito. Io, a Boston non ci voglio mica andare, ma ho deciso che quel tempo definisce in maniera ancora più precisa la soglia della rispettabilità, che, per la mia categoria - SM45 - è di 3 ore e 20 minuti.) e, per farla breve, l'obiettivo dichiarato per la Maratona del ritorno, dopo 3 anni, dopo aver detto basta con la Maratona e aver poi cambiato idea, è fissato in 3 ore e 20 minuti. Solo 22 minuti e 55 secondi meno del mio, al momento della partenza, tempo migliore. Cosa che, sebbene appaia un'esagerazione ignorante come poche, ritengo possibile e nella quale credo con grande convinzione fino a poco dopo la partenza.
Appena dopo aver visto il cartello con il Km 1, infatti, in un tratto dove mi è stato detto è caduto più d'uno, qualcosa non ha funzionato nell'appoggiare il piede destro. Forse lo spigolo di un piccolo marciapiede all'uscita di una curva, col gruppo ancora compatto e nessuna visibilità, oppure la fuga tra due lastre del pavé del centro storico. La caviglia destra mi si è girata come succedeva ai tempi in cui non potevo fare a meno del tutore e, nell’agitazione del momento, ho preso in seria considerazione l'ipotesi del ritiro. Mi chiedevo come avrei potuto correre in quel modo per oltre 41 chilometri. Ho proseguito, ma con poca fiducia e davvero molto dolore. Arrabbiato. Distratto da quello che consideravo un fatto pressoché certo, che si sarebbe materializzato nel volgere di poco, probabilmente. Per niente lucido. Con la testa bassa (il torcicollo di oggi e molte di queste immagini lo testimoniano), attento a ogni appoggio, attento a evitare una seconda e senz'altro definitiva distorsione. Essere abituato a correre sul dolore dei miei acciacchi ricorrenti, in questo caso, mi è stato di grande aiuto. Non ha risolto il dolore, ovvio, ma non mi ha precluso nulla. Almeno dal punto di vista fisico. Tant'è che il ritmo, al cartello dei 10 Km, era quello giusto, intorno ai 4'45"/Km. Merito del pilota automatico più che della confusione che avevo in testa, ma bene così. Al Km 15, senz'altro per via dell'appoggio incerto, sento formarsi una vescica sotto l'avampiede destro e, per la seconda volta, mi sento aggredito dallo scoramento. Una piccola svolta arriva subito dopo, però: al campionario di tutto quello che non vorresti ti succedesse in gara si aggiunge un improvviso dolore alla pancia, sento che entro breve dovrò fermarmi per cagare. Approfitto di una siepe e spruzzo con nonchalance un angolo della campagna reggiana. Mi libero della merda che avevo nel corpo e pure di quella che avevo in testa, riprendo con inaspettata leggerezza. Arrivo alla Mezza con un minuto di ritardo rispetto al piano gara e me ne compiaccio: avevo paura di partire troppo forte e la consapevolezza che questo non sia accaduto mi fa pensare di aver corso con la testa, almeno fino a quel momento. Nonostante le difficoltà. Nonostante gli imprevisti. Recupero dopo, mi dico, quando la strada smetterà di salire. Peccato non succeda, o meglio, peccato che la Maratona di Reggio Emilia – bellissima, specie con il sole e una temperatura ideale come lo è stata domenica - sia un costante sali e scendi che non è compatibile con la piattezza dei miei allenamenti metropolitani e le mie grandi difficoltà a cambiare ritmo. Vedo, chilometro dopo chilometro, che i tempi non sono quelli che mi avrebbero dovuto portare a raggiungere il mio obiettivo, ma non mi perdo d'animo. Capisco che sto comunque facendo qualcosa di buono. A due/tre chilometri dalla fine, mi capita quello che non mi era successo mai prima d'ora: all'urlo d'incitamento di una persona lungo il percorso, inizio a piangere. Corro e piango. Fatico a respirare, mi strozzo. Piango e corro. Qualche centinaio di metri e mi passa. Mi chiedo perché sia successo, mi rispondo che forse quelle lacrime erano figlie della rabbia per non aver potuto correre, nemmeno questa volta, con serenità. E sento, sapendo quanto e come mi sono dedicato alla preparazione di questa gara, di non meritarmelo. Capisco che sono ormai alle corde, che sia le energie fisiche che quelle mentali stanno per esaurirsi, ma riesco a correre, senza forzare oltremodo, solo qualche secondo sopra i 5'/Km. Che va bene, infondo, per come sto. Visto il cartellone col Km 40, capisco che è questione di minuti, ormai. Pochi. I peggiori. Quelli in cui tutto può succedere. Tant’è. Nei pressi dell'arrivo, provo a dar fondo al poco che mi rimane da spendere, ma, altra novità, altro regalo del destino, un crampo al bicipite femorale destro mi fa urlare di dolore, mi impone di camminare qualche passo. Mi vedo sfilare da parecchi concorrenti con cui ho corso la gran parte della gara, perdo qualche decina di posizioni, ma riesco a non farmi rovinare del tutto l'arrivo. Riprendo a correre, taglio il traguardo alzando il pugno in aria dopo 3h24'13". Dicendo bella lì, sì, bella lì. Come avrebbe detto Filippide ai suoi concittadini, se fosse stato di Milano. E come recitava la mia maglietta, che lo zaino con cui ho scelto di correre ha reso però illeggibile.
Oggi penso che potrei mostrarla a Milano, la maglietta. Fra 4 mesi. Ma potrei anche cambiare idea. Magari domani decido di non correrla, la Maratona di Milano. Oppure decido di correrla con un'altra maglietta.
Se guardo ai numeri, capisco di aver raggiunto il primo quartile sia nella classifica assoluta (percentile 81) che nella classifica di categoria (percentile 75). Vero, non ho sbloccato il livello Boston, ma la condotta di gara e tempi al chilometro sempre piuttosto costanti, anche nel finale, mi fanno capire di averla preparata e gestita bene. Sono contento, insomma. Forse – forse – con un po’ più di serenità e senza alcuni degli imprevisti che mi sono capitati, forse sarebbe andata meglio. Oppure no. Le belle sensazioni che ho provato dovrebbero consigliarmi di riprovarci, le sfighe che mi sono capitate potrebbero indurmi a pensare che altre 12 settimane di dura preparazione potrebbero essere vanificate dopo un solo chilometro di gara. Non so. Ora me la godo. E ogni volta che passo sul ponte Viola, ogni volta esulto come ho sognato di fare per 6 anni.
Bella lì.