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Run Around Bardonecchia 2013. Report di una dilettante allo sbaraglio

Ho chiesto a Martina di accompagnarmi ad una gara, e poi, già che c'era, le ho anche proposto di correrla. Non contento, ho pensato che le due righe sul week-end bardonecchiese avrebbe potuto scriverle lei, che lei sì che sa scrivere, e ha accettato di buon grado anche questa proposta. Eccovi il resoconto della prima gara podistica della sua vita:

L’ultima cosa che pensavo avrei fatto nella vita, dopo prendere i voti e riuscire davvero a leccarmi i gomiti, era scrivere un report su una gara podistica. Una gara corsa. Da me.
Che ci crediate o no, io, Martina, record del mondo per la minor forza di volontà, centometrista della lagna e del culo pesante, peso massimo nella categoria divano, reginetta di tutte le tavolate, giungo bel bella, un bel mattino di luglio, a Bardonecchia, in compagnia del mio beloved podista anonimo, Davide (il baus), in occasione della prima edizione della Run Around Bardonecchia.
Ma partiamo dall’inizio. Pianificata in largo anticipo e nei dettagli più svizzeri, l’allegra trasferta era stata decisa, in origine, per consentire alla furia di fuoco che incendia le gambe dei baldi runners nonesi di mettersi alla prova in una bella 8 km estiva e montana, magistralmente messa in piedi dagli amici giovanigggiovanissimi di Eclectik. Stando ai miei piani io avrei fatto, per lo più, paesaggio.
Ma, cari amici vicini e lontani, la realtà, come spesso diciamo noi grandi saggi, piroetta spesso nelle direzioni più inaspettate: era infatti successo che – nell’ultimo dei mesi di lotta per smaltire quel pile naturale di ciccia prima di provare ad entrare in un due pezzi – io avessi deciso, anche quest’anno, neanche tanto inaspettatamente, di mettermi a correre. Una cosa intima, tra le cascine e i moscerini, un paio di volte a settimana, sola con il mio dolore, le vocine nella testa e il faccione paonazzo.
Sai che roba, direte voi. E avete ragione. Non foss’altro che a pochi giorni da un weekend in montagna durante il quale sapevo avrei interpretato la parte della ragazza del podista limitandomi a mangiate e bevute pre e post gara e, al limite, teneri sonnellini al sole, giunge su di me la domanda delle domande: ti andrebbe di partecipare?
Superato (?) lo sgomento, ci penso un attimo. Sono la peggio principiante. Mi sembra chiaro che non sono minimamente in forma. Farò un tempo da mezza maratona. Chiameranno l’elisoccorso (vocine nella testa). MA non mi perdo d’animo, e siccome mi giunge voce che anche Silvia è ancora indecisa tra partecipare e interpretare il ruolo statico e sonnecchioso della moglie del podista Marco l’americano, ma sotto sotto ci vuole provare, decido che sarà un sì.
Portatici sul posto il giorno prima della gara apprendiamo che l’organizzazione dell’evento prevede una collaborazione (ampiamente ripagata in salami e altri benefits) di tutti gli amici presenti. Quindi sabato pomeriggio, mentre la forza maschia traccia il percorso, allestisce, monta e smonta cose con aggeggi, decide ed organizza, io e Silvia - con la collaborazione del Principe Maurizio e Davide - facciamo il nostro debutto nel settore marketing e comunicazione. Volantiniamo, reclamizziamo l’evento a bardonecchiesi e bardonecchiesse, cerchiamo di selezionare visivamente il giusto target e, quando non ci riusciamo, di convincere quello sbagliato. Così facendo, non solo mi scopro in grado di incitare il mio prossimo alla corsa – cosa di per sé già divertente – ma quasi me ne convinco io stessa tanto che, verso sera, mentre scelgo una pizza leggera (!), finisco a malapena la mia birretta fresca (!!) e NON ordino il dolce (!!!), mi viene il dubbio che nel mio cervello, in qualche cavità profondissima umida e buia, qualcosa abbia fatto click.
Domenica mattina sveglia quasi all’alba, colazione leggera, mi faccio violenza per non reagire con violenza al tipico malumore da risveglio del mio dolce mannaro. Accolgo e contengo. So che tra poco questa maschera di riluttanza e negatività cosmica si trasformerà nel solito simpatico cialtrone che trolla, ride, scherza e salta come un grillo. Basta aspettare: infatti succede.
Arrivati al banchetto, ottimizziamo le operazioni di iscrizione e distribuzione pacchi gara, soprattutto grazie all’illustre podista nonese Mino che sembra essere nato per questo (anzi, ripensandoci, sembra essere nato per tutto), ci scaldiamo alla veloce, pronti via, pettorina numero 17 che è simpatica e di basso profilo, campanaccio da vacca e si parte.
Ora. Il dettaglio niente affatto secondario di fare il proprio debutto podistico in montagna, è che in montagna – vi stupirà – ci sono le salite. Il primo chilometro e mezzo del tracciato è in salita e voci di corridoio annunciano un muro cattivissimo verso metà percorso (vedere, qui sotto, la testimonianza GPS del baus di cui sopra). Chiaramente, non ho mai corso in salita.



Ma tengo, anzi teniamo, io e Silvia, codazzo naturale della processione di runners: ci siamo riproposte di non farci prendere dalla foga con l’obiettivo elementare di arrivare in fondo, non spolmonare né fermarci a metà singhiozzando e chiamando la mamma. Tutto sommato, va. Certo, mi sembra di essermi dimenticata di togliere l’incudine dallo zainetto ma realizzo presto (quando il primo tratto di salita finisce restituendomi il lusso di una respirazione quasi normale) di non avere nessuno zainetto. L’umore resta alto, io mi sento parte di qualcosa e la mia testa non produce vocine. Dai dai dai! (cit).
Ma – come dice il nostro amico Antonello – quando pensi che sia finita, è proprio allora che comincia la salita: il temibilissimo muro da scalare arriva presto sotto i nostri piedi. Improvvisamente mi tramuto in Fantozzi: l’ultima ruota forata di un carro che arranca. Mi sembra di respirare attraverso una cannuccia sottilissima e mordicchiata, sento che non ce la faccio, rallento, non mi fermo ma si insinua in me l’ipotesi che potrei farlo. E quindi il più è fatto. Mi faccio forza (più di quanto me ne sia mai fatta da quando ho memoria podistica) ma mi rendo conto che continuo a respirare poco e male, ad una velocità e ad un ritmo da sala parto, quindi mi rassegno all’idea di percorrere camminando il resto della rampa maledetta. Mi odio per questo, anche perché nel preciso momento in cui mi arrendo ed inizio a camminare incontro Davide (al quale avrei voluto dimostrare la wonderwoman che c’è in me, una volta nella vita) che ormai a falcate si dirige verso fine gara. Niente, come un soldato ferito ad una gamba dico a Silvia di abbandonarmi e raggiungere l’accampamento senza di me. Lei mi fa forza ancora da lontano con gesti inequivocabili che interpreto come un reiterato DAICAZZZOO, ma no, io non me la sento. VOTO 2.

Per fortuna dopo ogni salita c’è una discesa, questo non lo diciamo solo noi grandi saggi ma anche la geografia fisica, e dopo qualche minutino di fitwalking forzato per evitare la rianimazione mi rimetto in moto e scendo, in folle, con zampate da supereroina, veloce come la luce (vabbè), con le gambe che vanno da sole e la testa che non dice assolutamente n i e n t e. Inutile dire che non ho più nessuno intorno, inizio a dubitare che stiano smontando il traguardo e finendo l’ultima pennetta rigata del ristoro in mia assenza ma improvvisamente – è tutto improvviso quando sei una principiante – mi rendo conto che sono arrivata. Lo capisco perché un losco figuro che, tra le altre cose, assomiglia tantissimo al mio ragazzo, mi viene incontro baldanzoso, ormai fresco e ubriaco di endorfine (essendo arrivato giusto quei venti minutini prima). Inizia a scattarmi foto, così come si farebbe ad un rinoceronte in un park safari. Capisco che posso stringere i denti ancora un po’, fare un sorriso completamente anaerobico e decretare compiuta (con qualcosa che somiglia tanto a vera contentezza) la missione “sconfiggi il divano che è in te”, con un signor tempo imbarazzante di 60’ per 8.500 mt: il tempo del primo assoluto moltiplicato per due, ma anche tante risate e, soprattutto, il sogno di una vita che finalmente diventa realtà: un autentico pacco gara pieno di affettati, solo e soltanto mio.